Idee sul teatro, 1970 - di Giovanni Poli

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vanni-merlin
00domenica 30 aprile 2006 14:15
Idee sul teatro, 1970
di Giovanni Poli


In questa nostra epoca, in cui il teatro sta attraversando la crisi che tutti conosciamo, abbiamo sentito il bisogno di un ritorno all'espressione fisica. E questo non tanto come un ritorno storico, un ricorso storico, quanto come un bisogno di poter comunicare agli altri i nostri sentimenti, attraverso una forma che sia chiara, precisa, che sia al di fuori di convenzioni, che sia al di fuori della parola, la quale oggi subisce una svalutazione, soprattutto perché le distanze sono diminuite, poiché i popoli stanno unendosi - almeno così spero. E noi sentiamo la necessità di parlare agli altri, ma non solo nei limiti delle piccole nazioni, bensì in un'area e in un clima molto più vasti. Mi pare che il ritorno all'espressione dell'attore sia una necessità dell'uomo di oggi e possa essere indipendente anche da motivi estetici - per quanto ci siano anche dei motivi estetici che urgono. E uno di questi motivi soprattutto consiste nel fatto che la parola non è più capace, o almeno l'attore di oggi non sa più comunicare le sue emozioni attraverso la sola parola.

Il pubblico, forse travolto dai sistemi e dagli apparati e da tutto il mondo tecnologico, che ci ha portato la televisione, il cinema, i fumetti e tutto il resto, non riesce più a recepire la parola e ha bisogno di qualcosa d'altro che dia l'emozione. E io penso che solo il gesto sia capace oggi di dare la vera emozione.

Io mi allontanerei anche dal gesto nel significato di mimo o di pantomima. Vorrei riferirmi al gesto che esprime astrattamente delle pure forme. Io provengo dalla commedia dell'arte, dove il gesto esprimeva un naturalismo poetico. Penso perciò che la commedia dell'arte possa in qualche modo insegnare qualcosa al mondo d'oggi, al teatro d'oggi, soltanto in quanto essa si esprimeva attraverso il gesto. I movimenti d'avanguardia d'oggi - e mi riferisco al Living Theatre, mi riferisco soprattutto a Grotowski -, si propongono di dare al pubblico delle emozioni attraverso delle linee pure, attraverso delle esplosioni, direi, del gesto, secondo delle linee astratte, che possono ricordare l'architettura - il corpo nello spazio che diviene architettura, ma in senso dinamico. E in questo senso mi pare che la tradizione, che va da Décroux e giunge fino a Lecoq, sia una tradizione che va rinnovata in questo senso, perché c'è ancora la presenza della mimesi, dell'imitazione della realtà; cosa che cerchiamo anche noi di eliminare attraverso la commedia dell'arte: cerchiamo di riscattarci dal gesto naturalistico, per quanto stilizzato.

Il recupero della parola, che sarà certo molto importante nel teatro del domani, noi dobbiamo effettuarlo, come si diceva giustamente, attraverso il gesto; ma dapprima dobbiamo giungere a recuperare la parola attraverso il suono puro. E mi pare che nel ritorno all'espressione fisica dell'attore sia da includere anche l'insieme dei movimenti fisici del diaframma, alla ricerca di questi suoni puri. Da questi suoni puri noi potremmo arrivare un giorno alla parola, forse a un teatro in cui la parola ritorni ad avere un suo valore, non sia più la parola nei chiusi limiti del mondo d'oggi, ma sia una parola che possa esprimersi universalmente.

Io[...]cercherei di distinguere l'attore dalla figurazione meccanica. Mi pare che sia ovvia la differenza che esiste tra la figurazione meccanica e un corpo vivo, che è in contatto continuo con il pubblico e che parla con gesti particolari in quanto subisce il fascino del pubblico, in quanto partecipa ad un rito nel quale il pubblico è presente ed agisce attivamente, se così posso dire.

C'è una distinzione - mi pare - netta fra cinema e teatro, in quanto nel cinema l'opera è già fatta a priori, mentre nel teatro l'azione avviene nel momento in cui si recita, vale a dire davanti al pubblico, ed è essenziale che vi sia pubblico.

Per quanto riguarda il mio modo di pensare ad un ritorno dell'espressione fisica, non lo penso alla maniera della tradizione dei «Nô» e neanche a quella del teatro di Pechino e della tradizione cinese. Io penso che quel linguaggio sia un linguaggio vero e proprio con delle convenzioni vere e proprie, in quanto un gesto vuol dire una determinata cosa e soltanto il pubblico che conosca quel linguaggio può partecipare. Io invece aspirerei - ma la cosa è molto lontana dal realizzarsi ora - ad un teatro in cui noi non raccontiamo niente al pubblico attraverso il gesto, ma diamo soltanto delle emozioni: noi siamo alla ricerca di dare quell'emozione, che la parola non sa più dare a teatro, non so se per colpa della parola o per colpa del mondo che è mutato o per l'educazione che noi abbiamo oggi, o forse per la diseducazione che noi abbiamo oggi da tanta letteratura, che non è più letteratura. Mi riferisco al cinema, alla televisione, ai fumetti che stanno rovinando in un certo senso quell'educazione letteraria che noi abbiamo avuto.

Io direi che l'attore deve ricercare il gesto puro al di là del mimo, al di fuori del mimo anche, al di fuori di tutta una tradizione, che vuole raccontare cose logiche; l'attore soprattutto deve dare al pubblico una emozione, delle emozioni particolari; non deve raccontare nulla, deve esprimersi attraverso i gesti, alla ricerca però dei suoni puri. Questo rappresenta il punto di partenza per rifare un teatro, per ritornare alla parola.

Non so se sono riuscito ad esprimermi abbastanza chiaramente: non sono un teorico, cerco di fare delle cose senza - molte volte - pensare a quello che faccio.

Io volevo rispondere al signor Guidetti, anche perché stiamo facendo un'esperienza insieme; e, a proposito di queste parole, io credo di capirlo molto bene.

Noi ci chiediamo (e questa è una domanda che io rivolgo un po' a tutti, anche perché non è che io abbia una esatta risposta a tutto questo) se l'ispirazione, che consiste nel divenire personaggio, nell'essere posseduti dal personaggio, debba cominciare dal gesto o dalla parola, ossia dal suono puro per giungere al gesto, oppure dal gesto per giungere al suono puro. Abbiamo un'esperienza piuttosto interessante: siamo partiti dalla parola per arrivare al gesto, cioè cerchiamo nella parola quei suoni che possono produrre dei gesti precisi, gesti irripetibili, come irripetibile è il teatro in genere, che è nel momento in cui si fa e poi scompare. Mi pare che l'osservazione, fatta dall'amico qui, sia piuttosto importante: non c'è assolutamente divisione tra parola e gesto. L'importante è che l'attore debba esprimersi - per conto mio - con tutto se stesso: con l'organo vocale, con le membra umane, con tutto il corpo.

No, no, è ovvio che nell'espressione fisica è compreso l'intero organo vocale. Ma se io emetto un suono, il diaframma mi dà un movimento fisico, che non è soltanto il movimento fisico della voce, delle onde sonore, ma è un movimento che investe tutti i muscoli del corpo. Probabilmente, come dice Guidetti, è la stessa cosa.

È che io sono un anti-naturalista come formazione mia e penso che veramente siamo stati sotto il dominio della parola per troppo tempo, forse l'Ottocento ci ha portato a questo dominio della parola e alla parola naturalistica soprattutto, al suono naturalistico, all'imitazione della realtà quotidiana, cioè di un teatro-cronaca e non di un teatro-poesia. Quello che forse i giovani di oggi ricercano è un teatro di poesia, in cui la parola non sia più cronaca, non sia più prosa, ma sia poesia, un ritorno non al verso, ma alla poesia intesa come creazione dell'espressione attraverso il suono.

in «Atti della tavola rotonda internazionale del 19 settembre 1969, sala degli specchi di Ca' Giustinian, Venezia»



DA: www.teatroavogaria.it/storia/gp/testi/1970.shtml


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