Tre Contadini che Vanno a Ballare… - di Richard Powers

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vanni-merlin
00sabato 28 ottobre 2006 01:48
Tre Contadini
che Vanno a Ballare…
di Richard Powers, traduzione di Luigi Schenoni
Bollati Boringhieri, pp. 370, 18 euro


Considerato tra i migliori scrittori americani degli ultimi anni, Richard Powers in Italia non ha ancora riscosso l’attenzione che meriterebbe. Erede del Grande Romanzo Americano (a partire da Melville per arrivare a Gaddis e Pynchon), Powers è un autore colto e raffinato che non ha paura di far implodere la più scorrevole delle trame in digressioni filosofiche. Powers, infatti, è «una mosca umanista sul muro della tecnica», uno scrittore che nella letteratura vede il luogo ideale per chi vuole avere una visione dall’alto del rapporto tra tecnica e vita, del rapporto tra tecnologia e responsabilità collettiva.
Non a caso in tutti i suoi romanzi – da Il dilemma del prigioniero a Galatea 2.2 a Tre contadini che vanno a ballare – lo scrittore racconta come ogni aspetto della nostra vita, l’idea che ci siamo fatti del mondo, la libertà e le sue limitazioni, il modo in cui viviamo, lavoriamo e ci comportiamo siano tematiche da affrontare dal punto di vista tecnologico e, quindi, scientifico. Tre contadini… – finalmente riproposto dopo anni di oblio editoriale – è un grandioso affresco del Ventesimo secolo e della sua «riproducibilità tecnica»: in particolare è un romanzo sull’impatto, devastante, della fotografia e delle immagini in una società dove tutto, ormai, è stato ridotto a produzione in serie. Un ventesimo secolo visto come un «rinascimento prefabbricato» dove l’immagine del mondo non contiene nessuna grandezza osservabile, ma soltanto dei simboli.
«Persino il passato», scrive Powers, «che dimora nella nostra vita mentre riempie le pagine della storia, può pretendere di avere un significato solo se suggerisce indirettamente un presente concomitante. Dato il coraggio, viviamo di momenti di interferenza tra il passato e il presente, momenti in cui il tempo ritorna in fase con se stesso. Ed è questo l’unico significato della storia: cercare il passato non per altre creature ma soltanto per il nostro essere perduto». Quello che descrive Powers è un mondo che continua a progredire, ma nel quale nessuno progredisce veramente, un mondo in cui soltanto l’arte può rappresentare una via d’uscita che non sia una porta antipanico… Perché, come lui stesso sottolinea, «l’arte è un modo di esprimere cosa significa essere vivi, e la caratteristica principale dell’esistenza è l’infinito numero di probabilità che sembrano negarla. Per ogni possibilità che abbiamo di essere in questo mondo, vi è un’infinità di modi di non esserci. Gli incidenti storici cancellano interi universi a ogni ticchettio di orologio: la statistica ci considera ridicoli, la termodinamica ci nega. La vita, secondo qualunque metro razionale, è impossibile, e la nostra vita, questa, qui e ora, lo è infinitamente di più. L’arte ci permette di dire, di fronte a tutta questa impossibilità, quanto valga la pena celebrare il fatto che siamo in grado addirittura di dire qualcosa».


da: www.diario.it/index.php?page=lib.home&redir=last

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